ASTER, EGGERS, PEELE: I TRE VOLTI DEL NUOVO HORROR D’AUTORE MADE IN NEW YORK! (2023)
Horror d’autore: il cinema ha scoperto il prestige horror dopo decenni di horror banali e commerciali. Un genere che mescola l’orrore con una visione autoriale e matura, che esplora i lati oscuri della psiche umana senza ricorrere a mostri e jumpscare. Un horror che punta sull’angoscia più che sul terrore. I maestri di questo genere sono gli acclamati registi e maestri dell’horror d’autore moderno: Ari Aster, Robert Eggers e Jordan Peele!
Per due decenni, il cinema horror ha deluso i suoi fan con film ripetitivi e superficiali, pensati per spaventare gli adolescenti con mostri e jumpscare, più che per raccontare una storia. Ma negli anni recenti, è nato un nuovo tipo di horror, chiamato prestige horror o art house horror o elevated horror. Un genere che combina l’orrore con una sensibilità più adulta e originale, che evita le solite convenzioni, con film che usano il linguaggio cinematografico per creare angoscia più che paura. Cruciale la psicologia dei personaggi, che rivela i lati più cupi dell’umanità: i traumi, i tabù, le fobie.
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TRE REGISTI, UNA CITTÀ, UN GENERE: IL CASO A24 E IL NUOVO CINEMA HORROR
Tre autori in particolare si stanno distinguendo in questi ultimi anni: Ari Aster, Robert Eggers e Jordan Peele (a cui si potrebbe aggiungere anche David Robert Mitchell ma concentriamoci su loro tre). Tutti e tre hanno in comune l’età giovane, il terzo film appena uscito e la provenienza da New York. Quest’ultima non è una coincidenza, ma un segno della loro connessione con la A24, la casa di produzione che ha sostenuto alcuni dei loro film e che è diventata il simbolo di questa nuova corrente, lanciando anche le opere di altri autori come Valdimar Jóhannsson (Lamb) e Ti West (la trilogia di X).
Beau ha paura, uscito da noi in sala il 27 aprile, è il terzo film di Ari Aster, che insieme a quelli di Eggers e Peele, compone un ritratto molto accurato della situazione attuale di questo “nuovo” genere, forse uno dei più originali e promettenti del cinema moderno. Pur avendo stili diversi e percorsi creativi indipendenti, i lavori di questi registi stanno rinnovando il legame tra cinema di genere e cinema d’autore.
ARI ASTER E LA SUA FILMOGRAFIA: IL CINEMA HORROR D’AUTORE RAGGIUNGE L’APICE
Nonostante il nuovo film monumentale (179 minuti) con Joaquin Phoenix non abbia convinto tutti, il talento di un regista che ha ottenuto consensi di pubblico e critica con Hereditary e Midsommar resta indiscusso. A soli 35 anni, Aster ha avuto la possibilità di realizzare un’opera totalmente svincolata dalle logiche di mercato, in una situazione simile a quella di Damien Chazelle con Babylon (qui trovate la nostra recensione e qui un analisi abbastanza corposa del film).
La breve ma intensa filmografia di Aster mostra una chiara crescita: se Hereditary era un horror classico sulle possessioni demoniache, ma sapeva trattare temi complessi come la famiglia e il dolore, con soluzioni registiche originali e scelte narrative mai scontate, Midsommar lasciava da parte le atmosfere orrorifiche – il film doveva essere uno slasher – per puntare sul thriller psicologico. Infine, con Beau ha paura, si assiste a una totale emancipazione creativa e a una mescolanza di generi che forse ha portato nel tipico “voler fare troppo” che ha deluso alcuni.
ROBERT EGGERS: IL REGISTA CHE SFIDA IL PUBBLICO CON IL CINEMA D’AUTORE
Il cinema d’autore non ha l’obiettivo di accontentare tutti, ma al contrario di sfidare lo spettatore, portandolo al limite e giocando, se serve, con il genere che si decide di adottare. E chi meglio di Robert Eggers sa cosa significa sperimentare? L’unico elemento comune tra i suoi primi tre film – oltre alla cura rigorosa della narrazione – è il profondo legame con le tematiche arcaiche che esplorano i miti e la psicologia umana.
Per il resto tutto è lecito: dal sorprendente debutto di The Witch, con la sua critica all’estremismo religioso, al coraggioso The Lighthouse, un viaggio in bianco e nero nella psiche pieno di rimandi mitologici, fino a giungere a The Northman, reinterpretazione dell’originale versione norrena di Amleto che ci fa entrare nel cuore selvaggio e violento della sua leggenda.
La regia e in particolare i movimenti di camera di Eggers possono essere definiti come estremamente eleganti. Alla messa in scena quasi sempre lugubre e “sporca” si contrappongono inquadrature perfette a livello formale. L’eleganza di quest’ultime è spesso data anche dalla loro staticità e lentezza nei movimenti, altro elemento che inconsciamente o meno può venire dal teatro. Questa particolare regia va ovviamente a enfatizzare la recitazione degli attori che, non a caso, sono anche stati ben lodati per le loro interpretazioni. Si pensi alla Thomasin di Anya Taylor-Joy o al duo Robert Pattinson/William Dafoe che danno vita a un incredibile spettacolo, fatto di tensioni, odio e intimità.
JORDAN PEELE: IL LINGUAGGIO DELLA THRILLER E DELLA SATIRA NEL SUO CINEMA
Jordan Peele ha seguito una traiettoria più lineare e coerente, ha segnato il cinema di qualità con il suo primo film Scappa – Get Out, vincitore dell’Oscar per la Miglior sceneggiatura originale nel 2018. Il suo stile si basa sul raccontare metafore della situazione degli afro-americani negli USA, usando il linguaggio del thriller e dell’horror con tocchi di satira per catturare e coinvolgere lo spettatore. Anche se non hanno avuto lo stesso successo di Get Out, Us e Nope hanno confermato le capacità di un regista – prima conosciuto come attore – che sa esprimere e comunicare le sue idee.
Gli effetti disturbanti del cinema di Jordan Peele si basano sullo scambio. Sul dittico tra “noi” e “loro”, il bene e il male contrapposti che si confondono, si scambiano, coabitano a prescindere dallo scontro inevitabile. Dovrebbe essere fuori da noi il male, altrove, ma ce l’abbiamo dentro: siamo noi. È solo una questione di innesco. Questo vale per entrambe le sue pellicole, se così volessimo chiamarle ancora.
In Scappa – Get Out quanto in Us, gli scenari hanno un lato oscuro, un doppio. Il primo giocava con il razzismo e il lavaggio del cervello, il secondo preme su zone ancora più ataviche. La realtà che pensavamo viene capovolta in un sapiente gioco di specchi disturbante e spaventoso in primis per i protagonisti. Poi per il pubblico avviene quel miracolo del transfert, il riconoscersi nel disgraziato protagonista di turno sullo schermo e partecipare emotivamente delle sue disavventure.
Ovviamente gli strumenti tecnici sono i colpi di scena, montaggio e inquadrature studiati al millimetro e al fotogramma. Tutto però sotto ritmiche visive non lineari ma sincopate. Così percorrendo strade narrative non battute ma parallele a ciò che conosciamo, il suono, come in ogni migliore sogno e peggiore incubo prodotti dal cinema, trova i suoi bassi assordanti e penetranti sempre al momento giusto. Il doppio di Lupita Nyong’o parla infatti ispirando: il mondo dal quale proviene il suo personaggio sosia è tutto contrario a “noi”. Opposto ma identico.
Quindi se “noi” parliamo soffiando aria dai polmoni, “loro” fanno l’opposto. Così tutto diventa più meccanico, rugginoso, non più fluido. Sincopato. Inizia la paura dell’ignoto impensabile, dell’altro da sé. Del Noi.
CONSIDERAZIONI FINALI
Questi tre autori newyorchesi, che hanno in comune e al tempo stesso differiscono in tanto, ci faranno vedere cosa hanno in serbo per il futuro. Se sapranno ancora innovare generi trascurati, arricchendoli di significati e idee, o meno. Noi siamo pronti a lasciarci stupire, ma anche terrorizzare, turbare, sconvolgere. Di sicuro, non smetteremo di sentirne parlare.
Cosa ne pensate voi? Avete visto qualche film di questi registi?