The Brutalist – La nostra recensione del nuovo film con Adrien Brody! (2024)
“The Brutalist“, il nuovo film diretto da Brady Corbet, scritto anche insieme alla sua partner, Mona Fastvold, ha finalmente debuttato all’ottantunesima Mostra del Cinema di Venezia, dove fa parte della selezione di opere in concorso.
Il cast vanta nomi importanti e amati come Adrien Brody (celebre per film come “Il Pianista”, “The Grand Budapest Hotel” e “The Darjeeling Limited”), che qui interpreta il protagonista, László Tóth, e Felicity Jones (ricordata soprattutto per il ruolo di Jyn Erso nella saga di Star Wars). La cosa che più stupisce, però, è la durata monumentale: 215 minuti (poco più di tre ore e mezza). La visione ne varrà la pena? Noi di Nerd Al Quadrato l’abbiamo visto e siamo qui per dirvi la nostra!
La recensione di “The Brutalist” sarà strutturata in queste parti: recensione no-spoiler (in quanto il film uscirà nelle sale tra un po’ di tempo), recensione spoiler, concludendo con l’opinione finale riassuntiva.
Recensione No-Spoiler di “The Brutalist”
Il film narra la storia di László Tóth, un architetto ungherese emigrato dalla sua città natia, Budapest, verso gli Stati Uniti del dopoguerra. Anche se le opportunità lavoro oltreoceano sono decisamente maggiori, László fatica a trovarsi un impiego stabile e remunerativo. Dapprima viene assunto dal cugino Attila, ma la cosa non funziona e si vede costretto a cambiare impiego. Nel frattempo, senza contare le difficoltà economiche, il protagonista deve fare i conti anche con la distanza dai propri affetti: la moglie Erzsébet e la nipote Szofia sono ancora bloccate in Europa.
Dopo un po’ di tempo, gli viene presentata l’occasione della vita. Un ricco uomo d’affari americano, Harrison, gli commissiona la progettazione di un immenso centro culturale a Doylestown, in Pennsylvania. Tra una richiesta e l’altra, vuoi per far contento il comune o per contenere le spese, i lavori finalmente iniziano con grande entusiasmo, che verrà frenato dopo non molto da un terribile accadimento. E così hanno inizio decine di peripezie e difficoltà per i nostri personaggi, tra la difficoltà di portare a termine il lavoro, delle relazioni sentimentali non semplici e delle decisioni ardue.
Brady Corbet racconta magnificamente questa storia da dietro la macchina da presa, con una messa in scena sempre impeccabile e delle soluzioni artistiche non da poco conto. Meravigliosa è anche la fotografia, ricca di color correction e colori saturi che creano degli shot veramente da favola. Più che ottima anche la recitazione del cast. Adrien Brody, più di tutti, ruba la scena. L’attore di New York ha dato vita a una delle migliori performance della sua carriera, che passa soprattutto per la voce e il suo un accento suggestivo. Felicity Jones e Guy Pearce regalano altrettanto due buonissime interpretazioni.
Purtroppo, però, la scrittura scricchiola un po’. Tre ore e mezza sono decisamente troppe per le vicende narrate. Una prima parte fin troppo diluita, anche se esteticamente impeccabile, viene compensata da una seconda troppo densa di contenuti, che vuole parlare di veramente troppe cose, dovendo compiere delle scelte e lasciando, perciò, poco spazio a elementi che andavano approfonditi maggiormente.
Insomma, “The Brutalist”, vista la durata, è sicuramente un film impegnativo e non adatto a tutti. Il lato tecnico è di prima fattura e contribuisce a rendere incantevole la visione, grazie a una fotografia da dieci e lode e una regia fenomenale. Ciononostante, la sceneggiatura ha qualche pecca di troppo, in primis la gestione della durata e di alcune tematiche.
Per maggiori informazioni su “The Brutalist”, vi lasciamo qui la versione spoiler!
Voto: 8/10
Recensione Spoiler di “The Brutalist”
Nell’Ungheria del 1947 c’è un grosso problema: anche se la Seconda Guerra Mondiale è finita da due anni, le persecuzioni continuano, spingendo moltissimi ebrei a emigrare verso l’estero. Tra questi c’è László Tóth (Adrien Brody), un architetto che decide di cambiare la propria vita e trasferirsi oltreoceano presso il cugino Attila. Quest’ultimo gli offre un piccolo impiego da “designer” presso il suo negozietto e un luogo dove alloggiare. Un primo trampolino di lancio si presenta quando gli viene affidata la costruzione di una biblioteca per Harrison Van Buren (Guy Pearce), il quale non la gradisce e si infuria con l’architetto. Quando, poi, László allunga le mani sulla moglie del cugino, le cose si sommano e il rapporto termina abbastanza bruscamente.
Il protagonista si vede, quindi, obbligato a trovare un nuovo posto di lavoro, finendo a spalare il carbone e soffrire enormemente la povertà. A ciò si aggiunge una certa solitudine, vista la lontananza della moglie, Erzsébet, e della nipote, Szofia, rimaste bloccate in Europa, oltre a una dipendenza dall’oppio. Ma non tutto è perduto, per il povero László.
Con sua grande fortuna, infatti, Harrison torna da lui per rivolgergli delle scuse e per dirgli che ha iniziato ad apprezzare quella biblioteca. Lo invita poi a cenare casa sua la sera stessa dell’incontro. Così, presso la biblioteca del sig. Van Buren (proprio quella tanto criticata), i due fanno conoscenza. Espongono una alla volta le loro vite, i loro drammi, i problemi che li affliggono e che sono stati, in passato, causa di dolore per loro. Ed è qui che la fortuna gira nuovamente incontro all’espatriato.
Harrison decide di commissionargli la costruzione di un edificio immenso – dedicato a sua madre -, un centro culturale per la cittadina di Doylestown, Pennsylvania, che sarebbe dovuto fungere anche da biblioteca, palestra, luogo di ritrovo. A queste si aggiungono le richieste del comune, che, per finanziare il progetto, vuole uno spazio al suo interno dedicato alla comunità cristiana protestante. L’americano promette, poi, di ritrovare moglie e nipote del progettista e riportarle lì da lui. Necessita, tuttavia, di una fotografia delle due donne, che László riesce a reperire grazie a una corrispondenza epistolare. Così si conclude la prima delle due parti (più l’epilogo) in cui si suddivide il film. Segue un intervallo di 15 minuti, parte integrante dell’opera.
Una prima parte di (quasi) vuoto cosmico. Accade ben poco, forse troppo poco nell’ora e mezza iniziale, che appare quasi allungata troppo. Ci sono, comunque, degli elementi e degli spunti interessanti, come alcuni dialoghi o il toccante scambio di lettere e, certamente, la fotografia.
La seconda metà di “The Brutalist“, più ricca di contenuti, inizia con il ricongiungimento della famiglia Tóth, momento in cui László scopre che la moglie (Felicity Jones), a causa della grave malnutrizione, è finita sfortunatamente in sedia a rotelle. La scena è veramente meravigliosa e struggente, con un Adrien Brody stupefacente, soprattutto per la mimica facciale, e un bellissimo piano sequenza di Brady Corbet.
In principio, le cose vanno bene sia con Erzsébet sia con Szofia, anche se tutto è destinato a cadere. L’iniziale entusiasmo dei lavoratori piano piano si spegne e viene poi affossato del tutto da un grande imprevisto accaduto al treno che stava portando i materiali a Doylestown. Ci sono gravi feriti, perciò il cantiere viene chiuso, costringendo i Tóth a trasferirsi a Ney York, dove, nel frattempo, Erzsébet aveva trovato lavoro come giornalista. In seguito, László viene riassunto e inizia a mostrare una grave ossessione per il suo lavoro. Non è più l’uomo di prima, se ne accorge anche la moglie, con litiga pesantemente. La “brutalità” travolge piano piano tutti e invade gli spazi, le relazioni, i rapporti.
Qualunque interazione appare, ormai, evidentemente tossica, come è László, che si scopre essere ancora dipendente. Un’altra dimostrazione è fornita dall’aggressione subita dall’architetto, a opera di Harrison, mentre si trovavano in Italia in cerca del marmo perfetto. Saltiamo, adesso, al finale, in cui Erzsébet, a conoscenza di tutto, si reca a casa dell’ex capo del marito per accusarlo di fronte a ospiti evidentemente importanti. La donna viene cacciata di casa con la forza da Harry, il figlio dei Van Buren, una vera e propria serpe. In seguito, il padre scompare, apparentemente suicidandosi.
Il film si conclude negli anni ’80, alla prima Biennale di architettura, dove Szofia tiene un discorso molto toccante descrivendo gli zii con belle parole.
Insomma, la seconda parte di “The Brutalist” è molto caotica, quasi confusionaria, e risente dell’eccessiva lunghezza della precedente, che rende la pellicola eccessivamente lunga. Diversi elementi li ho trovati quasi “buttati lì”, come la dipendenza del protagonista, che serve sì a un risvolto narrativo, ma che è priva di profondità.
Anche il matrimonio tra László e Erzsébet non è gestito nel migliore dei modi. Non si capisce bene il loro rapporto, nonostante siano sposati. Litigano spesso e anche in modo pesante; lui è un donnaiolo, però, nel complesso, sembrano felici della loro relazione. Pare che gli vada bene e che le discussioni non portino a nulla. Tutto viene, però, “giustificato” dalla frase finale, che rispecchia un po’ il tema dell’opera: non conta il viaggio, bensì la meta.
Fortunatamente, a tenere in piedi e abbastanza saldo “The Brutalist” ci pensa il reparto tecnico. La regia di Brady Corbet è di prim’ordine, sempre chiara, asservita alla narrazione e ricca di interessanti trovate artistiche, e questo promettente ragazzo è solo agli inizi della sua carriera. La fotografia, pure, è meravigliosa, armoniosa, piena di colori saturi e magnifici giochi con la luce, specie nelle inquadrature serali, con il tramonto. Le interpretazioni non sono da meno, con un Brody in stato di grazie, già quotato per gli Oscar, e ottime performance di contorno da parte della Jones e di Pearce. La colonna sonora è bella, a volte ansiogena, e molto presente.
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La spiegazione del finale di “The Brutalist”
Il film ci lascia con un grande quesito: che fine ha fatto Harrison Van Buren? La sua sparizione , dovuta alle accuse della signora Tóth, è molto enigmatica e misteriosa. Harry e sua sorella lo cercano in lungo e in largo, senza successo. Un omicidio è poco probabile, idem un rapimento. L’unica via percorribile è quella del suicidio. Difatti, l’ultima scena della seconda parte ci mostra proprio una croce proiettata dalla luce sull’altare della cappella nella biblioteca.
Per quanto riguarda gli altri due protagonisti, nel finale assistiamo a una versione più vecchia e decrepita di László , che necessita della sedia a rotelle proprio come la sua defunta moglie.
Opinione finale con voto di “The Brutalist”
Insomma, “The Brutalist“ è un’opera gigantesca, massiccia, dalla durata imponente di 3 ore e mezza. Queste non vanno giù molto facilmente, anzi, soprattutto a causa di una scrittura che mal gestisce i tempi e le interazioni, anche se ogni tanto regala qualche dialogo interessante e bello. Le interpretazioni incredibili, la fotografia favolosa e la regia fenomenale, però, tengono in piedi il film, girato in 70mm, e valgono il prezzo del biglietto.
Voto: 8/10
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E voi, cosa ne pensate di questa recensione? Siete in hype per “The Brutalist”? Andrete a vederlo una volta rilasciato? Fatecelo sapere qui sotto con un commento!