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Dahomey – La nostra recensione del documentario vincitore dell’Orso d’oro a Berlino! (2024)

“Dahomey” è il nuovo documentario della regista Mati Diop: vincitore del prestigioso Orso d’oro alla 74esima Berlinale, è uscito in streaming su MUBI il 13 dicembre. Noi di Nerd Al Quadrato l’abbiamo visto e siamo qui per dirvi la nostra!

La recensione di “Dahomey” sarà strutturata in queste parti: recensione no-spoiler (per chi vuole un primo parere sul film, ma non l’ha ancora visto), recensione spoiler, analisi del finale e concludendo con l’opinione finale riassuntiva.

Dahomey - La nostra recensione (2024)
“Dahomey”

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Recensione no-spoiler di “Dahomey”

Dahomey è, oltre a essere diretto da Mati Diop, scritto e prodotto da quest’ultima. La particolarità del documentario è quella di riuscire a immergere lo spettatore in un mondo lontanissimo dalla sua quotidianità, riuscendo a trattare di tematiche importanti come l’identità popolare e la coscienza individuale legata alle proprie origini.

Punto di forza del progetto è, oltre alla sceneggiatura, la colonna sonora: particolare e ipnotica, regala allo spettatore un’esperienza uditiva inedita e che non lascia di certo indifferenti. Grande pecca del progetto è però il ritmo: nonostante il film duri poco più di un’ora, dopo una buona prima parte rallenta in favore di una seconda parte che seppur riflessiva non riesce a essere incisiva quanto la prima.

Dahomey è un buon documentario e con alcuni punti di forza che lo elevano rispetto alla media: tuttavia una gestione poco curata della seconda parte e del fattore intrattenimento impediscono al progetto di entrare con forza nell’immaginario dello spettatore, rendendolo poco memorabile.

Voto: 7/10

Voto:

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“Dahomey”

Recensione spoiler di “Dahomey”

Qualunque Paese nella sua storia è stato protagonista di furti d’arte: opere di inestimabile valore trafugate durante conflitti, vendute ed esportate illegalmente dal proprio Paese d’origine (l’unica cariatide greca rimasta al British Museum aspetta pazientemente di riunirsi alle sorelle già ad Atene): o, ancora peggio, portate via dallo stesso artista a causa di periodi difficili a livello sociopolitico di quest’ultimo come La Gioconda e Leonardo Da Vinci.

Eppure, nell’opera seconda di Mati Diop dopo il sorprendente “Atlantique” (esordio che l’ha portata a vincere il Gran Premio speciale della giuria, riconoscimento secondo solo alla Palma d’Oro), il motore della narrazione non è la rabbia del Paese derubato, quanto il conflitto dello stesso nel ritrovare pezzi di sé stesso e adattarli alla sua realtà contemporanea.

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“Dahomey”

Dahomey – che porta lo stesso nome dell’omonimo regno dal quale provengono i manufatti derubati (oggi corrispondente allo stato del Benin, clicca qui per avere più informazioni a riguardo) – si apre in un voice-over alieno, il quale corrisponde alla voce degli stessi 26 manufatti che stanno per essere restituiti alla loro casa dalla Francia.

La creatività di questa scelta narrativa permette a Diop di far immedesimare lo spettatore nel senso di disorientamento metaforico di questi oggetti e nella loro storia, oltre a illustrare tramite inquadrature spesso di completo buio come le opere d’arte abbiano vissuto una lunghissima notte in attesa di ritrovare la via di casa: la tematica verrà ripresa nel corso del film anche nella stessa patria d’origine dei manufatti, un Benin il quale sta muovendo i primi passi verso la tanto agognata modernità.

Dopo una prima parte la quale illustra anche il viaggio dei manufatti di ritorno, questi ultimi vengono riposizionati in una mostra permanente nel loro Paese: il film qui prende una piega meno narrativa e più standardizzata a livello documentario, esponendo i vari punti di vista dei beninesi specialmente in un ambiente accademico.

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“Dahomey”

Vengono illustrate molteplici opinioni le quali offrono spunti interessanti di riflessione sul patrimonio culturale, ma sulle quali viene incentrata tutta la seconda parte in uno stimolante ma allo stesso tempo pesante confronto tra esperti e studenti, il quale alla lunga risulta quasi noioso e ridondante: specialmente dopo una prima parte dove l’utilizzo innovativo del voice-over, di un punto di vista narrativo diverso dal solito e di una colonna sonora accattivante che elevano il prodotto di qualità.

È comunque interessante in “Dahomey” vedere uno scambio di opinioni sul patrimonio culturale e storico di un popolo, con il cinema a farne da voce espressiva: Diop si muove tra le varie opinioni con occhio imparziale, mentre le 26 opere d’arte si chiedono, intimorite, se siano davvero nel posto giusto e in un Paese completamente diverso da come lo avevano lasciato, oltre che a persone dalla mentalità e valori differenti.

Qual è lo scopo effettivo di questi beni culturali? C’è ancora modo per valorizzare a dovere il patrimonio storico-culturale per le generazioni future? E come lo si può attuare? Sono tutte domande alle quali Diop non lascia una risposta precisa allo spettatore, ma sicuramente lo faranno riflettere sul suo rapporto con l’arte e la sua storia come appartenente a una specifica cultura.

Analisi del finale di “Dahomey”

Il finale di Dahomey però riesce a essere abbastanza potente senza troppi espedienti narrativi: dopo che effettivamente le statue sono state restituite alla loro casa, le luci del museo dove sono esposte si spengono di nuovo, nel silenzio della sala.

Sembra quasi che per i manufatti si sia tornati al punto di partenza, imprigionati in gabbie di vetro le quali però stavolta sembrano più opprimenti in quanto rinchiusi nella loro stessa dimora d’origine e circondati da cittadini i quali forse non riescono più a dare il valore che spetta loro.

Sta però nell’individuo e allo stesso tempo cittadino portarle nella sua memoria e fare affidamento sulla sua coscienza politica e attiva, a livello quasi patriottico, affinché ciò che lo formi anche come persona a livello culturale non venga mai dimenticato: un monito a non perdere la sua identità in una contemporaneità che tende all’omologazione.

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“Dahomey”

Opinione finale con voto

Dahomey dimostra come Mati Diop riesca, al suo secondo lungometraggio, a trattare di tematiche civili e storiche con la giusta dose di rabbia e denuncia sociale: la sua creatività alla sceneggiatura nella prima parte e il reparto tecnico buono vengono però oscurati dalla gestione del ritmo altalenante e alcune meccaniche narrative ridondanti.

Voto: 7/10

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E voi avete visto “Dahomey”? Fateci sapere nei commenti cosa ne pensate!

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